Gli 
	insegnamenti del CACCO, allenare il buon senso.
	di Marco SODINI
	
 
	
	Credetti che la soluzione migliore fosse accettare uno dei ruoli da assistente, 
	per imparare quello che non avevo neanche mai visto, rapportarmi a 
	professionisti anche di settori diversi (medici, manager) per poi, quando 
	fosse stato il momento, tornare a fare quello che l’indole mi portava a 
	sentire come il ruolo in cui mi sentivo a mio agio: il capo-allenatore. Al 
	contrario di quello che si possa pensare, la necessità di sentire 
	responsabilità addosso non è per nulla un fatto scontato. 
	
	Grandissimi professionisti hanno scelto di non 
	avere un’esposizione di un certo tipo pur 
	avendone le capacità e le opportunità, perché si sentivano molto più a 
	proprio agio con impegni e responsabilità diverse. Il fattore 
	personale, 
	specie rispetto all’alto livello, è assolutamente determinante.
	
	
	La chiarezza del pensiero mi fece scegliere Livorno. Sandro Dell’Agnello, 
	che allenava quella stagione, oltre ad essere un’icona del Basket Italiano, 
	era perfetto per me dato che da ex giocatore aveva certamente un taglio 
	diverso rispetto alla mia formazione. La città mi conosceva e aveva 
	apprezzato i risultati degli anni Don Boschini, ma in particolare il mio 
	modo di essere piaceva alla persona che più di tutte fu determinante nella 
	scelta: Gianfranco 
	Benvenuti, il Cacco!
 
	
	Se qualcuno è troppo giovane per sapere chi fosse, parlo di uno 
	dei più grandi allenatori Italiani, 
	ma non era solo questo. Appassionato vero di pallacanestro era il riassunto 
	della Livornesi, fatta di sorrisi ironici, di sarcasmo ma rispetto al gioco 
	anche di una conoscenza e padronanza pressoché assolute. Quell’anno era il 
	nostro Senior 
	Assistant, 
	veniva in palestra ogni giorno. Guardava quello che facevamo in ufficio, 
	assisteva ai montaggi-video, era presente alla scelta dei giocatori.
	
	Qualche volta diceva che non sarebbe mai stato in grado di fare le cose che 
	facevamo in palestra, ma quando poi si trattava di correggere un giocatore o 
	di spiegare la 
	mitica difesa 3-2 match-up, 
	gli occhi si illuminavano e sembrava lo stesso di una foto di anni prima che 
	si può vedere dentro il palasport di Montecatini in cui grida un metro 
	sollevato da terra contro chissà che cosa.
	
	
	Abbiamo imparato mille cose da lui quell’anno, io probabilmente più di tutti 
	e alcune vorrei condividerle(come 
	non mi piace questo sostantivo in epoca social), per far capire agli 
	allenatori giovani cosa rende possibile il successo o meno di una squadra. A 
	inizio stagione, la prima da professionista, stavo attentissimo a quelle che 
	erano le richieste del mio capo-allenatore. Non cercavo in alcun modo di 
	andare oltre e questo limitava il mio naturale modo di stare in campo. Con 
	Sandro ci è voluto pochissimo ad andare d’accordo, è una persona schietta e 
	onesta, perfetta per chi ha il mio carattere, però sportivamente non ci 
	conoscevamo bene.
 
	
 
	
	Dopo un mese circa, il Cacco fece irruzione in ufficio e mi disse diretto 
	come era solito fare: “Non 
	stai allenando! E invece sei qui per allenare!”. Gli 
	risposi che stavo cercando di seguire consigli e desideri di Sandro e lui 
	replicò: “Sì, 
	certo, quello lo fai bene. Schemi, difesa, tutto. Ma tu non alleni così! Se 
	uno non stende le braccia, glielo devi dire! Se un americano non si piega 
	per difendere, glielo devi dire! Se uno fa un passaggio con una mano e lo 
	deve fare con due, glielo devi dire! Sei qui per questo, il resto lo sanno 
	fare tutti”. 
	Non ci dormii tre notti. Quei trenta secondi mi hanno fatto diventare un 
	professionista, perché mi fecero capire che non 
	c’è differenza (tecnica) nell’allenare campioni o ragazzi. 
	Chiaro che sono diverse le modalità di intervento, ma non è diverso 
	l’intervento. All’interno di un sistema evoluto, rimangono giocatori e la 
	differenza tra vivere e morire sta nel produrre un effetto sul loro modo di 
	giocare che porti alla massima efficienza.
	
	Fare la scelta giusta non porta a niente se la tecnica non può gestire la 
	scelta.
	
	
	Il secondo momento determinante fu il racconto di un 
	aneddoto. 
	Gianfranco mi disse che allenava una squadra in serie A ed il suo miglior 
	tiratore era un italiano (di stranieri ce n’erano due al massimo… Ci stava 
	che potesse succedere). Ad un certo punto della stagione, improvvisamente, 
	quest’ultimo iniziò a non giocare bene. Sembrava anche molto preoccupato, 
	nervoso in palestra, per nulla concentrato.
 
	
	Il Cacco nel 1990, ai tempi di Trapani
	
	Invece di arrabbiarsi, il Cacco cercò di capire 
	il motivo del nervosismo e 
	scoprì che questo giocatore aveva cambiato casa ed il suo cane (un pastore 
	tedesco) non riusciva ad abituarsi, distruggendo l’appartamento nuovo ogni 
	volta che era lasciato solo. La soluzione fu di portare 
	il cane in palestra, 
	legarlo a bordo campo, sorbirsi qualche abbaio ma rasserenare il tiratore 
	che iniziò di nuovo a far canestro.
	
	Prendersi cura dei propri giocatori.
	
	
	Se vogliamo che la nostra squadra renda al meglio, dobbiamo conoscere le 
	persone, sapere come amano comportarsi, capire le problematiche che hanno. 
	Tanto più importante oggi, in un momento in cui la provenienza differente 
	dei giocatori produce abitudini sociali differenti.
 
	
 
	
	La teoria del buon senso applicata all’auto-esigenza. Costruire una 
	mentalità vincente non può prescindere dal buon senso. Se un giocatore non è 
	funzionale a un modello è un conto, ma se un giocatore ha tutte le 
	caratteristiche per stare all’interno di un sistema, ma in qualche modo non 
	funziona, credo si debba porsi la domanda fondamentale.
	
	Cosa posso fare per aiutarlo? Perché le cose non vanno?
	
	
	Dobbiamo avere la forza di porci come soggetto del problema e 
	conseguentemente agire. Correggendo, capendo, aiutando. Perché i giocatori 
	capiscono sempre se stiamo dando loro strumenti per migliorare o se li 
	stiamo solo usando in modo strumentale (citazione di Ettore Messina non in 
	maniera corretta).
	
	
	Però arriverà un momento in cui chiederemo ai nostri giocatori di gettarsi 
	nel fuoco assieme a noi e la vittoria o la sconfitta dipenderanno dalla loro 
	risposta… Se sarà “Andiamo!”, 
	potremo farcela, ma se sarà “Perché?”, 
	sarà troppo tardi anche per provare.
 
	Curriculum di Marco SODINI
	
	Nato a Viareggio ha iniziato ad allenare a 21 anni nella propria città. Dopo 
	trascorsi a Lucca ( serie B e settore Giovanile ) approda a Livorno dove con 
	il Don Bosco Under 18 sfiora un titolo Juniores eccellenza ( Pescara 2006 ) 
	ed allena per la prima volta una Nazionale Giovanile ( under 18 ). Nel 2008 
	e 2009 è assistente di Dell'Agnello in Legadue ( anche miglior staff del 
	campionato nel 2009 ) per poi esordire in Serie A come vice allenatore della 
	Virtus Bologna, dove rimane 3 stagioni. Nel 2013 l'esperienza all'estero in 
	Superleague Ucraina con il B.C. Kiev, poi la chiamata a Milano nello staff 
	di Luca Banchi e lo scorso campionato l'esperienza da capo allenatore a 
	Piacenza in Legadue. Nel maggio 2015 è anche stato il primo allenatore 
	Europeo a tenere un Clinic in Colombia.
	
		
		****************************************************************************************************************************************************************
	
	
 
	
	
 
 
	
	Ho iniziato la mia carriera professionistica (formalmente) nella stagione 
	2007-2008 a Livorno. 
	Venivo da una delle migliori scuole di Basket in Italia, il Don 
	Bosco, 
	società della medesima città. Le stagioni precedenti erano state molto 
	gratificanti: una finale scudetto Under 18 Eccellenza, un quarto posto Under 
	16 Eccellenza, la chiamata a far parte dello staff della Nazionale Under 18 
	agli Europei 2006 in Grecia e tante altre soddisfazioni ancora.
	     
	
	
	Al Don Bosco il peso della tradizione si misura nella quantità infinita di 
	giocatori regalati alla Serie A, in una scuola tecnica che ha portato alla 
	ribalta allenatori di talento infinito, ma anche con una preparazione che 
	non può non riferirsi al modello della società.
	
	
	
	Così, se è vero che Banchi, Ramagli, Russo, Da Prato e Diana sono tutti 
	diversi, una certa componente formativa li accomuna. Avere la fortuna di 
	passare in una palestra metaforica dove tutto si impregna di alto livello, 
	oltre a inorgoglirti, aumenta il tasso di quella 
	che Ettore Messina chiama auto-esigenza, 
	che innalza il livello di attenzione personale e nel caso specifico 
	aumentava anche l’esigenza di eccellere per tutti gli altri allenatori che 
	mi stavano intorno. 
	
	
	 
	
	
	A partire da questa formazione mi sono trovato nel momento in cui il ciclo 
	finiva ad avere la possibilità di scegliere che nuova realtà abbracciare. 
	Avevo offerte dall’allora B1 o dalla B2 come capo-allenatore e in qualche 
	modo le tre (sob!) squadre Toscane allora in LegaDue (Pistoia, Livorno, 
	Montecatini) manifestavano interesse nei miei confronti. Pur provenendo da 
	una realtà di livello assoluto come il Don Bosco, rispetto al mondo del 
	professionismo pagavo lo scotto di essere cresciuto in un mondo (Viareggio) 
	dove la pallacanestro di Serie A non si era mai vista dopo la mia nascita.
	
	                                                                                                                                                                                                                        
	
 
	Pubblicato da Basket Universo il 6 
	marzo 2016